giovedì 19 febbraio 2009

Pasticcio Democratico


La sconfitta sarda. L'addio di Veltroni. Le mire dei capicorrente. I 30-40enni sul piede di guerra. È caos nel Pd. E anche il futuro del partito ora è a rischio


Il pacco di tesserine magnetiche giace lì, malinconicamente abbandonato in uno scatolone al pianterreno di largo del Nazareno: sopra c'è un'immagine della manifestazione del Circo Massimo dello scorso 25 ottobre. Tanta gente, le bandiere del Pd, la scritta 'Grazie"' e la firma di Walter Veltroni. In memoria dell'unica giornata davvero felice dei suoi 16 mesi di segreteria: il popolo democratico arrivato da tutta Italia per applaudire Veltroni su un podio in stile Obama, una pedana in mezzo alla folla. Era raggiante Walter, quel giorno. Al punto da strapazzare i suoi critici: "State sempre lì a ravanare, attaccati ai vostri schemini: dalemiani, veltroniani.". E invece, appena quattro mesi dopo, martedì 17 febbraio, il Circo Massimo è un ricordo sbiadito, di quelle bandiere non resta nulla. Al secondo piano del Nazareno si scatena la resa dei conti più drammatica, con le dimissioni di Veltroni dalla guida del partito nato dalle ceneri di Ds e Margherita.

È l'8 settembre del Pd. Lo sciogliete le righe. Il tutti a casa. Con l'incubo sempre più reale del crack. L'abisso: l'implosione del progetto, il dissolvimento del partito, la scomparsa della principale forza di opposizione. Anche se la guerra contro la destra berlusconiana che ha conquistato anche la Sardegna di Renato Soru continua, o dovrebbe continuare. Ma con chi? Nelle ore dell'abbandono di Veltroni i capi e i capetti, generali e caporali di questa armata allo sbando chiamata Pd, danno il peggio di sé. Generali in fuga. Colonnelli tentati dal salto di grado ma impauriti da se stessi. Attendenti di campo in ritirata. Sfrecciano le berline, sorride tirata Giovanna Melandri, sorride più largo Pierluigi Bersani, considerato il candidato numero uno alla successione in un congresso da convocare in autunno, dopo il nuovo prevedibile rovescio alle europee di giugno, è quasi allegra Anna Finocchiaro tra i banchi del Senato. E Paolo De Castro, l'ex ministro dell'Agricoltura che ora è presidente dell'associazione dalemiana Red, addirittura gongola: "E ora prendiamoci la segreteria!". Il 'partito romano', impersonato da Goffredo Bettini, si riunisce di buon mattino in un ufficio della Camera con il nucleo duro dei veltroniani della capitale: il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, il segretario regionale Roberto Morassut, il deputato Michele Meta. La notizia delle dimissioni di Veltroni non si è ancora diffusa, Bettini la confida ai suoi esattamente come fece quasi due anni fa quando li convocò per annunciare che aveva convinto l'allora sindaco a rompere gli indugi e candidarsi alla guida del Pd.


Sono in pochi, in quel momento, a conoscere le decisioni del segretario. Veltroni sceglie di lasciare la segreteria a notte fonda, quando i risultati elettorali della Sardegna hanno cominciato ad assumere i contorni della catastrofe, l'ennesima dopo la sconfitta alle elezioni politiche, la perdita del Campidoglio contro Gianni Alemanno e la batosta abruzzese di dicembre. Ma l'idea di dimettersi matura prima del voto sardo. Nel fine settimana il segretario fa un giro di telefonate con i dirigenti più vicini sparsi in giro per l'Italia. E lì si capisce che ha deciso di mollare. Chi lo ascolta resta colpito: il Walter bonaccione, ottimista di natura, non esiste più. Al suo posto c'è un uomo stanco, deluso, amareggiato, stufo marcio di guidare il partito in queste condizioni. "Guardate solo cosa è successo oggi", si lamenta: "La mattina presento il piano anti-crisi del partito e incasso l'interesse delle categorie produttive. Il pomeriggio D'Alema va a Bologna e lo smonta pezzo per pezzo. Io costruisco la mattina e questi disfano la sera". Ed è inutile chiedergli di sfidare gli avversari interni con un congresso straordinario. "Non me la sento, non è nelle mie corde la guerra casa per casa per conquistare un delegato in più", ammette Veltroni: "E poi, se anche vincessi, cosa cambierebbe? Il giorno dopo ricomincerebbero da capo". Concetti ripetuti al momento delle dimissioni: "Un gioco al massacro, non ci potevo più stare. Si attaccava me per far fallire il progetto del partito. E con la candidatura di Bersani otto mesi prima del congresso e in piena campagna elettorale si è passata la misura. Basta".

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